Oggetti d'affezioneGiovanni Caminiti e Michele C. Battilana
Tutto quanto capita sottomano o è scelto nell'abbondanza Man Ray Indice
Nota degli autoriL'essenza dello stile gotico, diceva Heinrich Wölfflin, si lascia cogliere in una scarpa a punta altrettanto che in una cattedrale. Con questa battuta, se pure di battuta si tratta, il grande storico dell'arte non enunciava solo un principio fondamentale del metodo formale, ma sottolineava vigorosamente l'importanza del triviale e la pertinenza dell'insignificante e del quotidiano. Eppure Wölfflin si limitava ad analizzare le forme; per chi invece si interroga sulle logiche sociali, per chi si occupa non solo d'arte, ma di cultura in senso lato - in quanto attività produttrice e consumatrice di oggetti - non esiste assolutamente oggetto umano che non sia carico di senso, dal più prestigioso al più comunemente trascurato e disprezzato; fra il quadro di un maestro e un bottone per pantaloni non esiste gerarchia prestabilita. Soprattutto da quando l'epoca moderna, le trasformazioni del capitalismo, l'estetica industriale hanno sconvolto i rapporti tra arte e tecnica. Dall'oggetto alla reliquia"... l''oggetto' è qualcosa che vien gettato dinanzi al nostro cammino, un impenetrabile 'qualcosa' col quale collidiamo"; così scrive Ernst H. Gombrich nell'introduzione a "Il senso dell'ordine". In effetti la modernità ci smarrisce entro una selva di oggetti, un groviglio disordinato di elementi eterogenei e incongrui. L'intollerabilità di questa soffocante presenza caotica è superata grazie a quel procedimento della "messa in ordine" che a livello concettuale si realizza in una qualche classificazione. Anche nella nostra vita di tutti i giorni non facciamo che ordinare e riordinare un universo denso di oggetti, al centro del quale ci poniamo con la nostra fragile identità. E lo facciamo seguendo le due coazioni complementari che si originano dall'horror vacui e dall'amor infiniti. Ogni superficie, ogni "vuoto" è in qualche modo un riflesso del silenzio inquietante del cosmo; così siamo portati a conferire la parola a ogni minimo spazio muto, colonizzandolo appunto con gli oggetti, che lo conquistano a una storia nostra. Riempiamo i vuoti delle pareti, delle stanze e, con le classificazioni, quelli delle nostre conoscenze. L'horror vacui è al tempo stesso un amor infiniti: con la "messa in ordine", da un lato dividiamo lo spazio in infiniti sottospazi controllabili; un universo miniaturizzato, che d'altra parte dilatiamo verso l'incommensurabilmente grande con la monumentalizzazione del mondo. Insieme al capitano Gulliver sperimentiamo sia Lilliput che Brobdingnag. La classificazione è stata il procedimento conoscitivo tipicamente illuministico, di cui la "messa in ordine" minuziosa da parte di Linneo del mondo animale e vegetale ha costituito il caso più emblematico. Oggi questa stessa esigenza scatta nuovamente di fronte al caos prelinneiano di quella "natura seconda" che è l'"oggettualità". Il soggetto, spodestato da tutte le centralità dalle rivoluzioni scientifiche, ha qui l'ultima opportunità di costruirsi un universo radicalmente egocentrico. Così si potrebbe tentare una classificazione, catalogando gli oggetti l'uno accanto all'altro (nella sincronia) e l'uno dopo l'altro (nella diacronia). L'introduzione dell'elemento temporale potrebbe delineare una storia di "storia naturale" degli oggetti stessi, compresa tra gli stati-limite dell'utensile e della reliquia. Se non nato già come "reliquia" (opera d'arte o creazione artigianale), potremmo pensare cioè che l'oggetto nasca come strumento utilitaristico e muoia come elemento simbolico. Evidentemente l'oggetto comune (forbice, automobile, cacciavite, barattolo di birra che sia) è anzitutto una "protesi"; esso è sottoposto al puro "valore d'uso" e interessa il soggetto solo in quanto media il suo rapporto con il mondo esterno; ce ne serviamo, lo riponiamo, o addirittura lo gettiamo come "rifiuto". In secondo luogo l'oggetto scopre l'altra sua faccia di "valore di scambio", visto che può essere venduto e comperato sul mercato. Esso assume allora, come dice Marx, quel "valore d'uso festivo", per il quale si sottrae all'universo chiuso del rapporto con l'individuo singolo, per rivelarsi oggetto utile a tutti gli altri, eccetto che al venditore che lo possiede. Ma l'oggetto può anche svincolarsi da questo doppio circuito dell'uso e dello scambio in cui l'economia razionalista lo aveva confinato dai tempi di Adamo Smith. L'oggetto può possedere una terza valenza: come sostiene Jean Baudrillard, esso può annientarsi in quanto oggetto specifico, quasi ad assumere la trasparenza della parola. Medium, messaggio, conduttore di comunicazione, come dono esso è "valore di scambio simbolico". Forma non del tutto innocente: il dono genera l'obbligazione; è neutralizzazione, "colonizzazione" dell'altro; è al limite coercizione e potere. A questo punto, passando alla dimensione diacronica, potremmo articolare l'una dopo l'altra le tre valenze dell'oggetto e scoprire di conseguenza un suo processo evolutivo in un incremento di complessità funzionale. Ma nell'ottica di una "storia naturale" degli oggetti verrebbe a mancare un suo termine ultimo. Poiché nei tre casi descritti l'oggetto rimane a ogni modo inserito in una pratica d'uso: quella banalmente utilitaria, quella mercantile, più complessa, dello scambio e quella generosa, ma al tempo stesso sopraffattoria, del dono. Fa difetto a tale ipotesi evolutiva del senso dell'oggetto una congettura sul suo destino estremo, sulla sua fine. Dove vanno ad approdare oggetti alla deriva quando non servono neppure come dono? Prendiamo la forbice: la si usa per tagliare miriadi di cose; dopo di che, un giorno, qualcuno l'abbandona in un cassetto. La sorpresa di chi la ritroverà non sarà di aver riscoperto qualcosa di utile, ma qualcosa di bello: una forma inaspettata, ma tangibile, di memoria e di nostalgia. Come è avvenuta questa transustanziazione dell'oggetto dal paradigma dell'utilità a quello del godimento estetico? È che il trasferimento dell'oggetto da un tempo all'altro ingenera una sorta di spaesamento che lo carica di simbolicità e di allusioni in qualche modo "esotiche". Ciò avviene pure nel trasferimento spaziale e culturale dell'oggetto: le nostre vetrine, i nostri mobili si affollano di elementi anche di uso comune di popolazioni "altre" o di epoche remote, divenuti preziosi grazie a un'estetica delle lontananze. Poiché l'oggetto, conteso alla morte per mummificazione, sopravvive in una sua ultima "figura" come elemento di pura contemplazione, come sguardo che nega il suo essere utile, il suo essere scambio, il suo essere dono. Il luogo per eccellenza, "il tempio" di questa contemplazione è il museo. È evidente che vi sono pure oggetti privilegiati che noi produciamo non già come "reliquie" e che quindi non hanno bisogno di uno spaesamento di tempo o di spazio per assumere una loro valenza estetica, simbolica, retorica. "Oggetti d'arte" o anche oggetti manipolati per "falsificazione"; "oggetti unici in serie" dell'artigianato industriale. Il destino ultimo dell'oggetto è dunque la reliquia, quando esso sia sottoposto a una pratica culturale che lo vuole isolato dal resto del mondo in una sua assoluta "solitudine simbolica": la teca è il guscio sacrale della reliquia e la vetrina è l'ostensorio liturgico dell'"oggetto-reliquia". La "messa-in-vetrina" si rivela anche la conclusione del processo conoscitivo della "messa-in-ordine" col promuovere l'oggetto classificato a oggetto sacro; cosicché potremmo pensare a una teca dedicata all'"Oggetto Sconosciuto". A una recente esposizione fu messa in posizione centrale una vetrina contenente due basi sovrapposte e una scheda bianca; una vetrina in attesa di oggetti che oggi stiamo ancora usando, comprando, donando. Altare vuoto dei riti della modernità, attende le reliquie prossime venture. Appropriazione e usoNon è superfluo in questa sede chiedersi quali siano le pulsioni che motivano l'acquisto di un oggetto. Questo infatti nasce come progetto e diventa prodotto di serie solo in funzione di un futuro probabile acquirente. Ed è su quest'ultimo che sarà necessario focalizzare il nostro interesse. Provando soltanto il più leggero senso di colpa quando si sorprende ad allungare le mani su un altro oggetto di arredamento o genere alimentare, egli avvalora almeno in parte la tesi dell'economista formale, secondo cui questo comportamento si fonda su una scelta razionale. Di solito, egli non si reputa un imbecille privo del bene dell'intelletto, facile vittima delle astuzie dei pubblicitari, anche se ammetterà che altri lo siano. Dirà che quando decide di comperare qualcosa sceglie tra le diverse marche disponibili tenendo conto dei prezzi e del livello del suo reddito, proprio come dicono i manuali. Ma le tesi degli economisti lasciano senza risposte molte domande. Spesso non ha la sensazione di aver compiuto una scelta, ma piuttosto di essere stato sopraffatto dagli eventi. Il nuovo oggetto, che sia un tosaerba più efficiente o un congelatore più grande, è diventato in qualche modo, spontaneamente, una necessità. Richiede imperiosamente di essere acquistato e dichiara minacciosamente che la sua mancanza provocherà il regresso dell'unità familiare al caos di un'epoca più primitiva. Invece di esercitare una scelta sovrana, l'infelice consumatore si sente assai spesso come il passivo proprietario di un portafoglio del cui contenuto si appropriano preventivamente forze così potenti che i rimproveri morali sembrano inappropriati. Ma allora qual è il primo assioma della logica del consumo? Molti economisti concorderebbero su questa affermazione: "Un vuoto attira sempre qualcosa che lo vada a riempire". Ma questo meccanicismo potrebbe deludere quanti pretendono ritenere l'uomo un animale razionale anche nei suoi acquisti. Il consumatore considera anche quelli che sono i propri bisogni. E tra questi si apre una nuova dicotomia: da una parte troviamo la teoria materialistica dei bisogni fisici, dall'altra quella dei bisogni basata sull'invidia. Antinomia altrimenti evidenziata da quella che gran parte degli economisti definisce "la scissione morale". Essi riconoscono due tipi di bisogni, quelli fisici e spirituali, ma assegnano la priorità ai primi. A questi concedono la dignità di essere necessari, mentre degradano tutte le altre domande in una categoria di bisogni artificiali, falsi, di lusso, persino immorali, aprendo così le porte a una sorta di manicheismo biologico: il biologico diventa bene e lo spirituale resta privo di giustificazione. Nella pratica a entrambi i bisogni il consumatore dà sfogo e il problema si risolve in una questione di precedenze. Prima o poi, infatti, saranno soddisfatti anche i bisogni spirituali dettati da una spinta all'emulazione o da un desiderio di adeguarsi ai canoni di una certa ristretta cerchia sociale. Se non tenessimo conto dell'invidia e rimanessimo in un'ottica prettamente materialistica, resteremmo lievemente stupiti per l'umana irrazionalità che traspare dal desiderio di tappeti belli o di cucine nuove, un po' come se qualcuno si chiedesse perché i cani vogliono collari luccicanti oltre che mangiare e fare del moto. Quelli che poi chiamiamo "gusti", quando scegliamo tra prodotti simili che rispondono a bisogni spirituali, non sono altro che la velata ricomparsa di quegli obiettivi razionali che ci influenzano nell'acquisto dei beni fisici. Tutto ciò sempre che alla base del concetto di consumatore individuale utilizzato dall'economista ci sia la tesi che egli eserciti una scelta sovrana. Secondo i più recenti studi è proprio dopo l'acquisto che la logica del consumo si chiarifica, rivelando ragioni che non il semplice acquistare, ma anzi solo il possesso e l'uso del bene fanno emergere. Il destino degli oggetti, dal momento in cui lasciano il circuito della distribuzione al dettaglio e vanno in mano ai compratori finali, è parte integrante del processo di consumo. Come si dice che la funzione essenziale del linguaggio è la sua capacità di essere trasfuso in poesia, così postuleremo che la funzione essenziale del consumo è la sua capacità di dare significato alla spesa che lo precede. Dimentichiamo l'idea dell'irrazionalità del consumatore. Dimentichiamo che i beni servono per nutrirsi, vestirsi e ripararsi; dimentichiamo la loro utilità e sperimentiamo invece l'idea che le merci servono per pensare, trattandole come se fossero un mezzo di comunicazione non verbale per la facoltà creativa dell'uomo. Così come ogni fenomeno culturale ha i suoi rituali, anche i beni di consumo diventano strumenti di un rituale nella misura in cui rappresentano una certa forma di cultura. E questa può essere quella cultura di mondanità per la quale avremo all'interno di un salotto borghese lo sfoggio di tappeti, oggetti di arredamento, servizi di casalinghi in tono con una certa cerchia di conoscenze e in competizione con salotti analoghi. Sempre in un simile ambiente, mise preziose e monili raffinati, effimeri e superflui accessori a un abbigliamento già ricco e sfarzoso. Tutto sempre per essere indiscutibilmente il meglio, il massimo della raffinatezza per un'occasione. Ma non è solo la cultura della mondanità che sposa l'effimero e la competizione. Anche in ambienti "scientifici" si spende per avere gli strumenti più nuovi, più evoluti, senza che ve ne sia un vero bisogno: solo per non essere da meno degli altri. I rituali più effimeri si servono di cose materiali. Quanto più costosi sono gli addobbi rituali, tanto più forte sarà l'intenzione di fissarne un significato per il futuro. È in questa prospettiva che i beni sono accessori rituali; il consumo è un processo rituale la cui funzione primaria è di dare un senso al flusso indistinto degli eventi. Ecco perché le bevande analcoliche, a esempio, non hanno surclassato lo Champagne, che continua a rimanere sinonimo di gran festa, di ricca celebrazione. Parlando di riti è bene sottolineare l'importanza che questi hanno nella vita del singolo. C'è un tempo per vivere, un tempo per morire, un tempo per amare. I beni di consumo sono adoperati per segnare questi intervalli: la loro differenziazione qualitativa nasce dall'esigenza di porre delle distinzioni nel corso dell'anno come nel ciclo della vita. In ogni rituale sociale la scelta dei beni crea continuamente forme di discriminazione che si sovrappongono alle altre o le rinforzano. I beni sono la parte visibile della cultura. È come quando si sceglie tra un libro di saggistica o uno di fumetti, o si opta per un cinema d'essai al posto di uno a luci rosse. L'individuo si serve dei consumi per dire qualcosa su se stesso. Con le sue affermazioni esprime adesione o dissenso sul tipo di universo in cui si trova, ponendosi, a volte, in competizione con gli altri. Il godimento del consumo materiale è solo una parte del servizio che rendono i beni; l'altra parte è costituita dal godimento che si prova nel condividere con gli altri beni di consumo o nomi che li contraddistinguono. Questa cultura consiste nel condividere i nomi che sono stati appresi e graduati in categorie, e non nell'effettivo investimento materiale che consente l'ingresso di nuovi nomi nella collezione. L'aspetto culturale dei beni necessari viene rivelato dal fatto che sono usati in eventi di scarso prestigio e di alta frequenza, mentre i beni di lusso tendono a servire essenzialmente per eventi di bassa frequenza che godono di un'alta considerazione. È la periodicità nell'uso dei consumi che contraddistingue il rango e crea i beni di qualità. Le differenze di qualità tra i beni contrassegnano il rango degli eventi, oltre che il rango delle persone. Immaginiamo che ciascuna famiglia in questa cultura semplice e stabile si aspetti di possedere una serie di bicchieri, tazze e piatti per l'uso quotidiano; un servizio migliore tenuto per la domenica; un cimelio della famiglia è conservato sul ripiano più alto dell'armadio, ben avvolto nella carta, per l'esibizione annuale di Natale o Capodanno. In altri termini, i piatti possono così essere utilizzati per distinguere le varie occasioni. La famiglia e, più in generale, la categoria dei consumatori, deve essere sempre presente ai riti di consumo delle altre persone e in tal modo diffondere i suoi giudizi sull'appropriatezza delle cose utilizzate per solennizzare le diverse occasioni. Nella pratica del consumo si constata che agli individui interessano di più le caratteristiche dei beni che non i beni in sé stessi. Quando operano una scelta, gli individui mostrano preferenze dirette per determinate serie di caratteristiche. Sarebbe altresì interessante chiedersi, parlando di puri e semplici oggetti, che cosa trasforma i lussi di ieri nelle necessità di oggi. Non si deve dimenticare che alcuni oggetti di lusso del passato sono scomparsi completamente. Consideriamo, a esempio, i portasigarette d'argento massiccio di quaranta o cinquanta anni or sono, che nessuno più usa, ma che sono stati riposti insieme alle tabacchiere del Settecento nella vetrinetta degli oggetti rari, e quelli che aspettano invece, ammucchiati nelle soffitte, una decisione sul loro valore: oggetti di antiquariato o argento da vendersi a peso? Arte e riproducibilità tecnicaPuò sembrare azzardato proporre un tema così vasto e cangiante, come quello che pretende di essere "Oggetti d'affezione", come pretesto per individuare qualcosa di più dell'arte stessa: la stessa pretesa artistica dell'uomo. Eppure, ai molti che con lode si soffermano sull'artista e a quelli che nelle opere riconoscono solo le appendici intellettuali del loro creatore, noi vogliamo rispondere con una totale dedizione nei confronti del manufatto. Quasi tutto il "creato" dell'uomo vivesse una vita squisitamente propria, già al suo primo apparire nel "mondo delle cose". A coloro ancora che rivendicano la moderna suddivisione delle opere dell'uomo in oggetti d'arte e in oggetti di consumo, rispondiamo che, oggi, tale tassonomia risulta fuori luogo e prevaricatrice. Prevaricatrice soprattutto perché si fonda sul concetto della predestinazione all'uso del manufatto; il che equivale a definire oggetto artistico solo quello inutile all'atto pratico, unicamente "necessario" alla soddisfazione psicologica del gusto del fruitore. L'opera d'arte non vive più solo nei musei, ai nostri giorni; oggetti, che potremmo benissimo definire "artistici", ci accompagnano e ci stanno ovunque, sempre intorno. Diversa è la nostra capacità di goderli: la loro "aura" di oggetti d'arte ci è ben schermata dal loro uso abituale, dall'utilità che riconosciamo loro quotidianamente. Ci piace, in merito a questi argomenti, citare in questa sede la distinta e autorevole testimonianza di Walter Benjamin. Questi, nel suo libro "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica", parla con chiarezza del problema che affligge le nostre povere cose: quella che proprio lui definisce la "mancanza dell'aura". In linea di principio, l'opera d'arte è sempre stata riproducibile. Una cosa fatta dagli uomini ha sempre potuto essere rifatta da uomini. Simili riproduzioni venivano realizzate dagli allievi per esercitarsi nell'arte, dai maestri per diffondere le opere, infine da terzi semplicemente avidi di guadagni. La riproduzione tecnica dell'opera d'arte è invece qualcosa di nuovo, che si afferma nella storia a intermittenza, a ondate spesso lontane l'una dall'altra, e tuttavia con crescente intensità. I Greci conoscevano soltanto due procedimenti per la riproduzione tecnica delle opere d'arte: la fusione e il conio. Bronzi, terrecotte e monete erano le sole opere d'arte che essi fossero in grado di produrre in quantità. Tutte le altre erano uniche e non tecnicamente riproducibili. Con la silografia diventò per la prima volta tecnicamente riproducibile la grafica; così rimase a lungo, prima che, mediante la stampa, diventasse riproducibile anche la scrittura. Gli enormi mutamenti che la stampa, cioè la riproducibilità tecnica della scrittura ha suscitato nella letteratura, sono noti. Nel corso del Medioevo alla silografia vengono ad aggiungersi l'acquaforte e la punta secca. Con la litografia, all'inizio del secolo XIX, la tecnica riproduttiva raggiunse un grado sostanzialmente nuovo. Essa diede per la prima volta alla grafica la possibilità non soltanto di introdurre nel mercato i suoi prodotti in grande quantità, ma anche di farlo fornendo i prodotti in configurazioni ogni giorno nuove. Attraverso la litografia, la grafica si vide in grado di accompagnare in forma illustrativa la dimensione quotidiana. Cominciò a tenere il passo della stampa. Ma fin dall'inizio, pochi decenni dopo l'invenzione della litografia, venne superata dalla fotografia. Con la fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, la mano si vide per la prima volta scaricata delle più importanti incombenze artistiche, che ormai venivano a essere di spettanza dell'occhio che guardava dentro all'obiettivo. Poiché l'occhio è più rapido ad afferrare che non la mano a disegnare, il processo della riproduzione figurativa venne accelerato al punto da essere in grado di star dietro all'eloquio. L'operatore cinematografico nel suo studio, manovrando la sua manovella, riesce a fissare le immagini alla stessa velocità con cui l'interprete parla. Verso il 1900 la riproduzione tecnica aveva raggiunto un livello che le permetteva non soltanto di prendere come oggetto tutto l'insieme delle opere d'arte tramandate e di modificarne profondamente gli effetti, ma anche di conquistarsi un posto autonomo tra i vari procedimenti artistici. Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata manca un elemento: l'hic et nunc dell'opera d'arte - la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova. Ma proprio su questa esistenza, e in null'altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del suo durare. In quest'ambito rientrano sia le modificazioni che essa ha subito nella sua struttura fisica nel corso del tempo, sia i mutevoli rapporti di proprietà in cui può essersi venuta a trovare. La traccia delle prime può essere reperita soltanto attraverso analisi chimiche o fisiche che non possono venir eseguite sulla riproduzione; quella dei secondi è oggetto di una tradizione la cui ricostruzione deve procedere dalla sede dell'originale. L'hic et nunc dell'originale costituisce il concetto della sua autenticità. L'intero ambito dell'autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica - e naturalmente non di quella tecnica soltanto. Ma mentre l'autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene da esso bollata come un falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica. Essa può, per esempio mediante la fotografia, rivelare aspetti dell'originale che sono accessibili soltanto all'obiettivo, che è spostabile e in grado di scegliere a piacimento il suo punto di vista, ma non all'occhio umano, oppure, con l'aiuto di certi procedimenti, come l'ingrandimento o la ripresa al rallentatore, può cogliere immagini che si ritraggono interamente dall'ottica naturale. In particolare, alla copia è permesso andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia oppure del disco. La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d'arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all'aria aperta può venire ascoltato in una camera. Le circostanze in mezzo alle quali il prodotto della riproduzione tecnica può venirsi a trovare possono lasciare intatta la consistenza intrinseca dell'opera d'arte, ma in ogni modo determinano la svalutazione del suo hic et nunc. L'autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall'origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale ala sua virtù di testimonianza storica. Ciò che viene meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di "aura": ciò che viene meno nell'epoca della riproducibilità tecnica è l'"aura" dell'opera d'arte. Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell'ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all'ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione attualizza il riprodotto. L'unicità dell'opera d'arte si identifica con la sua integrazione nel contesto della tradizione. È vero che questa tradizione è a sua volta qualcosa di vivente, qualcosa di straordinariamente mutevole. Un'antica statua di Venere, per esempio presso i Greci, che la rendevano oggetto di culto, era inserita in un contesto tradizionale diverso da quello in cui la ponevano i monaci medievali, che vedevano in essa un idolo maledetto. Ma ciò che si faceva in contro ai primi e ai secondi era la sua unicità, in altre parole: la sua aura. Il modo originario di articolazione dell'opera d'arte entro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. Le opere d'arte più antiche sono nate, come è noto, al servizio di un rituale, dapprima magico poi religioso. Ora, riveste un significato decisivo il fatto che questo modo di esistenza, avvolto da un'aura particolare, non possa mai staccarsi dalla sua funzione rituale. In altre parole: il valore unico dell'opera d'arte "autentica" trova una sua fondazione nel rituale, nell'ambito del quale ha avuto la sua origine. La riproducibilità tecnica dell'opera d'arte emancipa per la prima volta nella storia del mondo quest'ultima dalla sua esistenza parassitaria legata al rituale. L'opera d'arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un'opera d'arte predisposta alla riproducibilità. Di una pellicola fotografica per esempio è possibile tutta una serie di stampe; la questione di una stampa autentica non ha senso. La ricezione di opere d'arte avviene secondo accenti diversi, due dei quali, tra loro opposti, assumono uno specifico rilievo. Il primo di questi accenti cade sul valore cultuale, l'altro sul valore espositivo dell'opera d'arte. La produzione artistica comincia con figurazioni che sono al servizio del culto. Di queste figurazioni si può ammettere che il fatto che esistano è più importante del fatto che vengano viste. L'alce che l'uomo dell'età della pietra raffigura sulle pareti delle sue caverne è uno strumento magico. Egli lo espone davanti ai suoi simili; ma prima di tutto è dedicato agli spiriti. Oggi sembra addirittura che il valore cultuale come tale induca a mantenere l'opera d'arte nascosta: certe statue degli dei sono accessibili soltanto al sacerdote nella sua cella. Certe immagini della Madonna rimangono invisibili per quasi tutto l'anno. Certe sculture dei duomi medievali non sono visibili per il visitatore che stia in basso. Con l'emancipazione di determinati esercizi artistici dall'ambito del rituale, le occasioni di esposizione dei prodotti aumentano. L'esponibilità di un ritratto a mezzo busto, che può essere inviato in qualunque luogo, è maggiore di quella della statua di un dio che ha la sua sede permanente all'interno di un tempio. Privando l'arte del suo fondamento cultuale, l'epoca della sua riproducibilità tecnica estinse anche e per sempre l'apparenza della sua autonomia. PizziIndagare sul primo apparire delle immagini di pizzo significa gettare uno sguardo retrospettivo sulle origini dell'immagine di devozione. Già dalle descrizioni della vita del chiostro tra Quattro e Cinquecento sappiamo quale ruolo ebbe nella vita monastica la piccola immagine religiosa dipinta su pergamena; vediamo anche come il fiorire dei conventi femminili e il rapido svilupparsi dei luoghi di pellegrinaggio favorissero questo particolare culto. Le immagini servivano a più scopi: si ponevano nei libri di preghiere, si applicavano ai cassettoni di biancheria, ai coperchi dei bauli, alle porte delle stalle, alle testate del letto, ai bossoli dell'elemosina, si distribuivano come attestato di presenza, si mettevano nella culla dei bambini e nella bara dei morti. In formato più piccolo, l'oggetto veniva persino fatto inghiottire a uomini e animali contro mali morali e fisici. L'immagine dipinta a mano fu anche un oggetto-ricordo che i conventi distribuivano a particolari protettori e amici, o che gli amici si regalavano in determinati giorni di festa o solennità, come Cresima, Prima Comunione, professione di voti e simili. Con le occasioni variava anche il soggetto: la Divina Trinità, Gesù Cristo e Maria in tutte le presentazioni, alternati con i Santi, specialmente i Santi patroni e, in minor numero, le immagini indulgenziate dei luoghi di pellegrinaggio. Originariamente gli autori di tali oggetti-ricordo erano monache o frati, perché nella maggior parte dei conventi vivevano pittori e pittrici di qualche talento. Nel Cinquecento, crescendo anche in ambiente laico la richiesta di queste pie miniature in pergamena, presero a realizzarle pittori di professione. Presto, tuttavia, non bastò più la semplice pittura: così si impiegarono le più diverse lavorazioni per abbellire artisticamente le immagini sacre. Si ricamarono cornici, si orlarono le immagini con piccoli bordi di stoffa, con lustrini e paillette. Immaginette incollate interamente su stoffa a molti colori e su pezzetti di seta si trovano già nella prima metà del Seicento. Presto si realizzano anche immagini che uniscono la pittura alla tecnica dell'applicazione, e nel Settecento queste composizioni diventano sempre più ardite e numerose. Anche l'usanza di ritagliare dalle stampe le aureole e gli abiti dei personaggi rappresentati e alle superfici vuote dare uno sfondo di stoffe colorate o di carta dorata sembra risalire allo stesso secolo. È, questo, il tempo in cui si può incominciare a parlare di immagini con pizzo. Accanto all'intaglio dei contorni di piccole, spesso piccolissime figure o gruppi di figure, graziosi dipinti ad acquarello, cominciò ad affermarsi, superandoli, l'immagine con pizzo. In essa si tentava, con il taglio del fondo intermedio, di far spiccare plasticamente un ornato puramente geometrico o una rappresentazione stilizzata di figure: un intreccio di volute di fogli e fiori, oppure pizzi al collo e ai polsi dei Santi rappresentati. All'inizio del Settecento vengono perfezionate le forme essenziali dell'immagine intagliata: il disegno avviticchiante, che a volte prende a modello la vegetazione, altre volte s'affida a intrecci calligrafici a volute di particolare cura, disegni di raggi, archi e piccole stelle, e taglio a maglia uniforme. Nella prima metà del secolo prevalgono le figurazioni che circondano l'ovale della miniatura con un poderoso e severo ornato di volute, in cui solo raramente figurano uccelli e fiori; come cornice del tutto un largo margine non intagliato. Verso la seconda metà del secolo il lavoro di volute acquista sempre più preziosità. Da un lato l'immagine si semplifica preferendo un ornato a volute avviticchianti di misura uniforme, che crea un grazioso sfondo per la miniatura; dall'altro lato la tecnica del taglio si fa più complessa, poiché si vogliono ottenere, attraverso l'incassamento dei tagli dei contorni, più forti effetti naturalistici. È in questo periodo che la ricerca di nuovi effetti nell'immagine di pizzo raggiunge, attraverso l'intaglio a rete, possibilità formali finora sconosciute. La vera "immagine di pizzo" giunge dunque alla sua più alta fioritura nella seconda metà del Settecento, ed è l'Austria a offrire gli esempi più belli. Le immagini di Maria Zell sono particolarmente ispirate a quest'arte. In questi lavori, esempi di purissimo Rococò, il foglio, se si eccettuano la miniatura e il cartoncino, è finemente tessuto a maglia: accanto a fiorellini sparsi e colorati, a una ornamentazione di fiori bianchi stilizzati, i viticci che si piegano e il lavoro a conchiglia danno l'impressione di un pizzo straordinariamente vero e vaporoso. Al posto della pergamena, viene ora spesso utilizzata la carta, con la quale si possono raggiungere effetti ancora più morbidi. Anche la dura cornice dell'immagine si muta ora in pizzo, e in luogo del margine diritto, quadrangolare, si preferiscono la forma ondulata, oppure precise forme figurate: spesso l'uovo di Pasqua come l'immagine da regalare in quella festività, il cuore o il congiungimento di due cuori, la foglia di quercia, il ventaglio, o il Cuore ferito di Cristo e i simboli della Passione, ingranditi se il soggetto è religioso. Religiosi o profani, gli intagli in carta e in pergamena restano misteriosi nella loro tecnica. L'osservazione attenta e accurata di molti pezzi non rivela alcun dato sicuro, e si possono solamente formulare ipotesi. È certo che la pittura di queste opere, eseguite alla perfezione, non può concepirsi senza un processo preparatorio. Forse, prima dell'intaglio, si riportava sul foglio, con tratto leggero, il disegno, che in seguito veniva sfumato; probabilmente una ripiegatura del foglio permetteva di traforare insieme più ornati simili al fine di facilitare il lavoro e di ottenere una armonia simmetrica; certamente con la punta del temperino si tracciavano segni di riferimento. Negli esemplari del Sei e Settecento questi accorgimenti tecnici sono difficilmente documentabili. Per la quasi totalità dei pezzi dell'Ottocento questi procedimenti sono, invece, chiaramente verificabili. Per di più si è avuta la fortuna di poter reperire nel Monastero torinese delle suore Visitandine una trentina di modelli in carta, preparati con inchiostri particolarmente evidenti, che servivano appunto per riprodurre i disegni e i motivi ornamentali. La ripiegatura del foglio, poi, negli esemplari ottocenteschi, è visibile anche al profano, data l'estrema sottigliezza del materiale usato. I primi quattro decenni dell'Ottocento mostrano il taglio a pizzo ancora in grande onore, nuovamente impiegato come specialità conventuale. Ma le immagini hanno perduto la loro antica bellezza, sia nel taglio che nell'acquerello, e sono per lo più lavorate in maniera schematica. Il motivo preferito è la presentazione del santo in un fiore, contornato da un rozzo e spesso negligente lavoro di volute. È cominciata, d'altronde, la concorrenza delle immagini stampate su matrice, che ottiene risultati di buon gusto dapprima nelle immagini non religiose, di amicizia, di un antico empirismo, nelle quali un morbido pizzo chiaramente articolato circonda l'ovale di un punto nitidamente colorato a mano. I primi rozzi pizzi a matrice dei popolari editori di Praga, Rude e Hoffmann - che cercano di copiare fedelmente i vecchi modelli intagliati a mano e che successivamente incollano sul pizzo una immaginetta di santo - presentano ancora una bella forma. Poi compaiono le prime immagini con pizzo, fatte su matrice da altre case editrici, tanto meno felicemente riuscite, quanto più vogliono illudere attraverso una fedele imitazione. Dalla metà dell'Ottocento in poi i pizzi a matrice diventano, poco alla volta, requisito tipico per le siderografie dei grandi editori parigini di immagini di pietà, che inondano l'Europa con i loro prodotti. Una delle più famose è la casa Turgis, che dalla Restaurazione sino a un'epoca molto vicina a noi sparge sulla Francia e sul mondo intero la sua produzione religiosa. Incise al bulino e all'acquaforte, al pointillé o all'acquatinta, litografie in nero o a colori, le piccole immagini con pizzo meccanico di sua produzione sono innumerevoli. Il solo catalogo del 1840, conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, è ricco di 225 modelli diversi di teste di santi, 419 biglietti di Prima Comunione, più di duemila piccole immagini da messale. Ormai l'immagine di pizzo è diventata un puro fatto di sfruttamento commerciale e l'intaglio meccanico di carta si riduce a pochi centimetri di forme geometriche molto semplici. Vere immagini di pizzo non vengono più ricamate nei più solitari conventi di suore. La loro fama, però, vive accanto al pizzo a matrice, nei lavori ad ago su canovaccio dove sono incollate piccole immagini ritagliate che i bambini imparano a realizzare in alcuni asili condotti da suore, o nelle sempre più rare scuole dei conventi. PoleneLa polena può essere definita l'immagine di un simbolo, di un animale o di una figura, sacra o profana, scolpita quasi sempre nel legno, e infissa per ornamento sulla prua di un'imbarcazione. Il termine, che ha un così bel suono antico, è stato tratto recentemente dal francese "poulaine", per la somiglianza dell'oggetto con i "souliers à la poulaine", "scarpe alla polacca", calzature dalla punta lunghissima, di moda nel XIV e XV secolo. Il termine potrebbe forse venire assai più semplicemente dalla parola "poulain", puledro, tanto più che molte di queste figure di prue si presentano in posizione "rampante". La parola sopravvive ancora nella lingua francese, ma con un tono decisamente antiquato. Esiste anche il dotto sinonimo "acrostolio", che gli conferisce una bella patente di nobiltà, poiché, provenendo dal greco "acrostolion" (estremo rostro), ne testimonia l'uso antico, rituale e pratico, ma anche la sua destinazione di arma da arrembaggio. Può essere che l'uso del rostro sia stato inventato dagli Egizi, ed è mostrato in azione già in pitture del 1200 a. C.: tuttavia il ricorso a quel potente mezzo di attacco navale, oltreché simbolo miracoloso di aggressione e distruzione, spetta piuttosto ai vascelli di guerra fenici, greci e romani: sempreché si ritenga più appropriato spostare molto più indietro nel tempo l'invenzione di un'arma d'attacco così manifestamente suggerita dalla forma stessa delle navi e dalla modalità della guerra sul mare. Sino a quale punto il rostro-polena sia stato poi identificato politicamente con la flotta nemica in assetto d'assalto è palesato singolarmente dal fatto che i rostri delle navi nemiche catturate furono accuratamente raccolti, dove possibile, ed esibiti come trofei di guerra, affissi a perpetua memoria sulle colonne innalzate nei Fori dalla potenza vincitrice. A Roma quella usanza ebbe inizio col console Caio Monio, che fece collocare le prue delle navi nemiche catturate nella battaglia di Anzio. Ricordiamo, tra l'altro, che, mentre in Latino "rostrum" richiama la somiglianza tra quello strumento d'attacco e il becco degli uccelli predatori, in Inglese e in altre lingue, si chiama "ram", ariete, cioè "testa d'ariete", poiché per motivi egualmente funzionali gli si dava sovente quella forma. Sarebbe fuori luogo ricostruire minutamente la storia e l'evoluzione della costruzione navale, particolarmente in Europa. Dobbiamo però ricordare che la marineria mediterranea e, in seguito, anche quella dei paesi del Nord, apprese molto, specie nel settore del naviglio leggero, dalla tecnica delle velocissime imbarcazioni moresco-arabe del Mar Rosso, del golfo d'Arabia e del Mediterraneo orientale, usate per la pesca, i trasporti a breve distanza e la pirateria. Sui due lati del tagliamare di quelle barche sottili si aprivano i grandi occhi, vivacemente colorati, delle cubie, per tirare le cime d'ancoraggio, ed esse portavano anche prolungamenti aguzzi: mai (forse anche per il noto divieto coranico di riprodurre la figura umana) immagini antropomorfe, cui si potesse dare il nome di polene. La galea mediterranea conservò, durante il Medio Evo e oltre, il rostro dei suoi predecessori classici, ma lo alzò sopra la linea d'acqua, allungandolo in forma di un lungo becco. All'epoca della messa in cantiere delle grandi flotte statali della Gran Bretagna, del Portogallo, della Francia, dei Paesi Bassi, pronte a contendersi la via delle Indie e delle Colonie, due fattori concorsero alla svalutazione dei rostri: l'adozione del bompresso e l'installazione dell'artiglieria di bordo. Curiosamente la costruzione delle prue a foggia e funzione di rostro ebbe poi un breve periodo di revival dopo la prima Guerra Mondiale. Nella prima metà del XVII secolo si assiste all'arrotondamento della forma della poppa. Da questa novità possiamo dedurre alcune conseguenze fondamentali. Scomparsi i rostri al principio del secolo, la prua, munita o no di bompresso, si erge alta sull'acqua, mentre la poppa, col cassero sempre più ornato e imponente, assume una forma quadrata, oppure quella di un arco molto ampio. Tutto ciò - contrariamente alla diffusione dello spirito barocco che brucia dalla volontà di imporre anche sulle navi la sua ambizione al fasto, alla grandezza, all'ornamento favoloso, alle sculture dai colori sonanti, a maggior gloria del committente - offre all'orgoglio del costruttore navale e al potere dello Stato marinaro una risorsa straordinaria, un terreno nuovo per proclamare la sua volontà di gloria sulla poppa. Ciò spiega perché prenda inizio in quest'epoca, nel nostro continente, quella che si potrebbe chiamare l'epoca d'oro della polena - che si protrarrà per quasi due secoli - sino alla metà dell'Ottocento, quando un profondo rivolgimento - l'avvento del ferro nella costruzione delle navi e quello del vapore come mezzo di propulsione - farà scomparire dalla prua delle navi le grandi polene. Per il fatto di essere state scolpite sempre nel legno, materia deperibile, le polene rimasteci non sono numerose. Possiamo però ammirarle ancora, oltreché nella pittura dell'epoca, nei musei navali. L'intenso conservatorismo dei marinai, che fece tanto perpetuare certi tipi di imbarcazione e i particolari delle loro strutture, è probabilmente legato alla credenza nella pregnanza religiosa e magica di certe forme. Nonostante certe vistose somiglianze formali (uno splendido busto di donna), ben di rado fu fissata su una barca, in funzione di polena, una vera e propria sirena (da cui il marinaio che non abbia perduto il senno fuggirà spaventato prima che la sua barca sia attratta a naufragio sicuro); ciò accadde, semmai, solo in epoca tarda, quando lo spirito "razionale" aveva dissolto quelle paure ancestrali. Si può facilmente immaginare che, con l'evoluzione della tecnica navale, quest'aspetto, sia pure simbolico, sia venuto regredendo e abbia ceduto ad altre, meno minacciose, magari anche ironiche raffigurazioni simboliche della potenza navale, quale essa si afferma nella navigazione marittima tra Sei e Ottocento, sempre più protesa a proclamare la forza e l'orgoglio dell'armatore. Per l'eterno, tormentoso assillo della donna, della femmina, che arroventava l'animo dei marinai nel corso delle lunghe navigazioni, la grande maggioranza delle polene superstiti rappresenta un busto di donna, florido, dalla cintola in su, con le mammelle opulente, trionfalmente protese sull'acqua o appena velate. Sculture che, pur nella rozzezza di quell'arte naif, nate sotto lo scalpello di scultori occasionali, sembrano scoppiare sotto la tensione di un'intensa carica erotica. Che poi quei busti di donna, provocanti, siano stati sostituiti, tardi e occasionalmente, dalle figure di prua di onesti capitani, commodori e ammiragli, o da altre sculture ugualmente "innocenti", sarà stata un'altra piccola imposizione del puritanesimo trionfante - specie nell'America del Nord. BersagliInsidiate da feudatari prepotenti, contadini insorti, soldataglia sbandata, incursioni o razzie prima tartare e poi turche, le città sorte nei secoli bui nel territorio dell'attuale Repubblica Cecoslovacca avevano come basilare preoccupazione la sopravvivenza. La loro sicurezza era affidata alle mura che le cingevano e ai cittadini che su quei bastioni combattevano, inquadrati in corpi volontari armati, i cui membri erano tenuti a esercitarsi nel tiro con l'arco e con la balestra per non trovarsi impreparati nel momento di un eventuale assedio. È naturale che tali esercitazioni divenissero, oltre che un dovere, un piacere e uno svago; le gare di tiro erano per i borghesi ciò che i tornei erano per la nobiltà: un avvenimento mondano che richiamava anche un folto concorso di pubblico dalle campagne circostanti e dalle città vicine. Ciò contribuiva a rafforzare lo spirito di corpo degli arcieri e balestrieri, e di conseguenza la loro efficienza militare; tanto che i sovrani incoraggiavano con ogni mezzo i sodalizi di tiratori. Il re d'Ungheria Bela IV donò per esempio nel 1268 un distintivo al corpo degli arcieri di una città slovacca, e nel 1360 l'imperatore Carlo IV emanava una bolla in cui specificava i doveri dei "suoi fedeli arcieri" praghesi, concedendo loro alcuni privilegi. Sul finire del Quattrocento, in seguito alla diffusione sempre crescente delle armi da fuoco, si formarono nuove associazioni o confraternite di tiratori che proseguirono la tradizione dei loro precursori, arcieri, servendosi dei nuovi ritrovati bellici. Questi sodalizi avevano i propri statuti, che elencavano rigorosamente diritti e doveri; uno stendardo, un sigillo, una cassa; al "maestro di tiro", eletto dai soci, spettava la cura di organizzare le esercitazioni e le gare, nonché l'incarico di far rispettare le regole e di tenere aggiornato il registro dei membri. Nel XVIII secolo le confraternite divennero così importanti da disporre di un proprio edificio, dapprima sempre addossato alle mura, più tardi anche all'interno delle città. Queste sedi svolsero un ruolo importante nella storia della Cecoslovacchia, fungendo da club in cui la borghesia si riuniva per discutere di eventi sociali o politici; e si può affermare che la rinascita della coscienza nazionale ceca e slovacca deve molto anche alle associazioni dei tiratori. Oltre alle normali esercitazioni le confraternite organizzavano gare aperte al pubblico, distinte in "tiro solenne" e "tiro reale", cui partecipavano a volte i rappresentanti della monarchia o, addirittura, il re in persona. Ogni "tiro solenne" veniva pubblicizzato dalla cosiddetta "tavola di raduno", generalmente di legno dipinto o intagliato, che veniva portata nelle case di tutti i membri. Nella coreografia delle gare, infine, appaiono i bersagli. Inizialmente si usavano tavole di legno quadrangolari dipinte in bianco, con un cerchio nero in centro e quattro circonferenze intorno. Ogni membro dell'associazione ne regalava uno alla propria confraternita, e lo stesso facevano le personalità cittadine. Inoltre, il "re dei tiratori", cioè il vincitore del "tiro reale", aveva l'obbligo di far dipingere un tirassegno per l'associazione. Questi bersagli servivano prima per le esercitazioni; poi, quando erano ormai abbondantemente "centrati", venivano usati per decorare i locali della confraternita. Erano anch'essi "prede" appese ai muri, come i trofei dei cacciatori e dei pescatori. Forse proprio dall'abitudine di esporli nacque l'esigenza di adornarli con immagini vivaci. Gli autori non erano naturalmente pittori di grido, ma imbianchini, falegnami, stuccatori, decoratori di tombe, indoratori di altari e di bare, ceramisti, pittori di fondali teatrali o di giostre. Raramente firmavano, apponendo il loro nome accanto a quello del committente, che campeggiava in caratteri pomposi, o alla figura del tiratore trionfante. Gli esemplari più antichi risalgono alla prima metà del Settecento. Sono dipinti per lo più a olio o a tempera su legno, ma troviamo anche la tempera su carta o l'olio su tela, incollati poi alle tavole; abbastanza raro l'olio su latta. Il formato classico è un quadrato o un cerchio del diametro di 60-80 centimetri circa; vi sono però anche tirassegni di oltre un metro di diametro, e persino alcuni con personaggi a grandezza naturale. Sul finire dell'Ottocento, troviamo tavole non più dipinte, ma recanti incollate stampe, litografie, fotografie. In genere su ogni tirassegno è indicata la data della competizione e spesso il nome del donatore o del tiratore vincente; troviamo talvolta anche dediche occasionali, motti o versi scherzosi. Alcuni bersagli mostrano pochissimi colpi, ma nella stragrande maggioranza ne sono letteralmente crivellati. I temi iconografici sono naturalmente legati, salvo poche eccezioni, alla vita della confraternita. Si possono distinguere grossomodo due filoni: quello patetico-celebrativo e quello ironico-satirico. Occorre comunque tener presente che questi dipinti avevano innanzitutto una funzione pratica, il che ne delimitava non solo il formato, ma anche la composizione. Il soggetto, inoltre, era di solito imposto dal committente. I tirassegni della confraternita di Prachatice colpiscono per la vivacità del tema centrale e per il movimento dei gruppi secondari; l'occhio dello spettatore è indotto a soffermarsi sui bimbi che giocano e sui cittadini che conversano tra loro, senza prestare la minima attenzione ai tiratori che entrano in campo. Al contrario, in altre tavole, le sfilate del corpo dei tiratori sulla piazza sono osservate con solenne attenzione da gran folle di astanti. Si indugia volentieri sui minimi dettagli, popolando di minuscole figure ogni finestra e persino i tetti. Allo stesso gruppo tematico appartengono i numerosi bersagli su cui sono dipinte le sfilate, le premiazioni dei vincitori, le benedizioni delle bandiere. Più differenziati sono i cosiddetti tirassegni personali, quelli cioè su cui appare ritratto il tiratore. La raccolta conservata a Banská Štiavnica si differenzia dalle altre per il fatto che sui suoi tirassegni figurano scene della vita quotidiana, ispirate probabilmente alle stampe popolari dell'epoca o alle vignette pubblicate sui periodici satirici I temi militari (parate, combattimenti, scene delle guerre napoleoniche, eccetera) e gli episodi dei conati insurrezionali della prima metà dell'Ottocento derivano in genere da stampe e quadri. Molto interessanti i bersagli raffiguranti personaggi celebri; i tiratori non esitavano a sparare sul proprio sovrano, come indica un tirassegno del 1841. Estremamente popolare il genere simbolico o allegorico, incrementato e alimentato dalle stampe dell'epoca, dai calendari, dai libri di sogni e in generale da tutta l'iconografia contemporanea. Altri tirassegni, specie quelli delle raccolte ceche, si ispirano a temi trattati dalla mitologia classica (Apollo, Diana, Bacco, Dafni e Cloe) o dalla Bibbia (Adamo ed Eva), oppure da leggende o favole popolari. Non mancavano naturalmente le scene di storia locale. La maggior parte di questi bersagli è chiaramente influenzata dalle opere dei pittori professionisti, e in taluni casi furono loro stessi a eseguirli. A questo gruppo si possono accostare i tirassegni rappresentanti fatti di cronaca contemporanea o del passato recente e vedute panoramiche del luogo o dei principali edifici cittadini. I committenti facevano spesso dipingere anche eventi considerati importanti nella propria vita. I tirassegni ispirati alle scene d'amore si distinguono per la loro ingenua e toccante poeticità. Non mancano neppure i temi esotici e avventurosi, ispirati ai racconti di viaggi ed esplorazioni. Una categoria a parte è rappresentata da alcuni tirassegni delle città minerarie, che celebrano il lavoro degli artigiani e degli operai locali. Dal punto di vista artistico questi bersagli si avvicinano molto alla ceramica popolare dipinta, alle figure su vetro e ai presepi di carta. Importante da un punto di vista storico-linguistico, data la situazione di repressione della cultura nazionale slovacca, è l'unico tirassegno noto con un'iscrizione in Slovacco; rappresenta un vetraio ambulante che grida: "Comprate i bicchieri". OcchialiNessun oggetto è appunto ob-iectus come un paio d'occhiali; nessun altro si offre allo sguardo con tanta intimità. Rapporto talmente stretto da lasciarsi spesso dimenticare; questo oggetto ovvio viene sovente "perso di vista" da quelli stessi che non vedono il mondo che attraverso di esso; come se la trasparenza lo votasse alla cancellazione, come se questo ausiliario della visione non richiamasse alcuno sguardo critico. Così l'ottica l'ha a lungo disdegnato; più il cannocchiale, nell'età classica, attirava l'attenzione degli scienziati, più essi rimanevano miopi davanti agli occhiali, con qualche lodevole eccezione; trecentocinquant'anni dopo la loro invenzione, invano se ne cerca la traccia nella "Diottrica" di Cartesio. Ora, questo oggetto quotidiano non si esaurisce nella funzione empirica e volgare; sotto le lenti familiari giace una stranezza che talvolta riemerge. Alcuni pittori e incisori l'hanno capito, associando volentieri l'oggetto a immagini di follia. Caratteristica doppiezza: la banalità degli occhiali riserva delle sorprese: sotto la loro Heimlichkeit si cela l'Unheimlichkeit. La loro strumentalità pratica non esclude la stravaganza. Nei prosaici occhiali coabita la poesia. Oggi più che mai questi oggetti sono duplici: sottomessi, come e più ancora da altri, a due tendenze opposte. La loro estetica non ha mai tanto contraddetto la loro tecnica; alla seconda, che miniaturizza le lenti, la prima risponde esagerandole; più l'una si ingegna per renderle discrete, quando non le riduce alla dimensione dell'iride, più l'altra le vuole ostentative, quando non fa loro ingoiare la metà del volto. L'era delle lenti a contatto è anche quella delle lenti giganti. E proprio quando le lenti si assottigliano, quando si aboliscono le montature, la moda se ne impadronisce a scopi di amplificazione retorica, facendo proliferare elementi divenuti tecnicamente obsoleti. Il lussuoso abbigliamento degli occhiali non è come tale una novità: già i contemporanei di Margherita d'Austria ammiravano i suoi occhialetti d'argento, ornati da "un piccolo leone dorato per leggere in un libro"; e nel XVII secolo la tartaruga o i metalli preziosi passavano per accessori obbligati dell'eleganza miope o presbite. Ma la moda, che elabora i nostri occhiali moderni, obbedisce a tutt'altri propositi: essa ne valorizza la forma piuttosto che la materia e al decorativo preferisce il significante. Abbandonando la gioielleria per l'emblematica, non arricchisce l'oggetto di costose incrostazioni, ma di sensi inediti. A che tendono in effetti le sue elucubrazioni, se non a fabbricare allegorie della funzione visiva? Piccante capovolgimento: questi occhiali sofisticati non confessano un'infermità, affermano una potenza; invertono lo sguardo malato in sguardo meduseo, lo sguardo vassallo in sguardo sovrano. Il loro rapporto con l'occhio non è più quello, ausiliare, che la stampella intrattiene con la gamba fragile, o il cornetto acustico con l'orecchio torpido; è un rapporto sostitutivo e conquistatore. Essi fungono meno da coadiuvanti che da simboli rappresentando tanto fieramente gli occhi da sostituirli. Perché, al limite, essi guardano da soli; le loro figure sono immagini di immagini dell'occhio che ci osservano. Dal disagio che ispirano deriva la difficoltà della loro appercezione critica: per quanto leggero appaia, il loro fascino sospende, per definizione, l'analisi. Questi occhiali, protettivi solo per coloro che li portano, è difficile esaminarli senza sentirsene aggrediti. Perché tutto in essi concorre a produrre un effetto scioccante: la loro grandezza, naturalmente, che ampia le orbite alle dimensioni di una parure smisurata; le loro stanghette elaborate; archi di plastica da cui pare scoccare la freccia dello sguardo; i loro colori che si dovrebbero definire più "vistosi" che chiassosi; o ancora la loro protuberanza un po' mostruosa e anche, quando sono "da sole", la loro bizzarra opacità. Questi oggetti sono decisamente più subdoli che banali. Bisogna peraltro render loro lo sguardo, senza temere di trasformarli in ciò che sono "anche": spettacoli, come li chiamano gli Inglesi. E ciò che di primo acchito rivelano, alla loro maniera spettacolare e subdola, è che sono i modesti eredi di una antica tradizione: quella metafisica che afferma periodicamente nella cultura occidentale la supremazia del visuale. L'occhio, per eccellenza, è il simbolo del vivente. Per esprimere la morte di un personaggio, a Hitchcock basta mostrarci i suoi occhiali rotti. Quella degli occhiali è la doppia faccia di un'unica ambizione: non essere che un occhio e averne cento, come il mostro mitologico. Alla simbologia oculare corrisponde una simbologia dello sguardo; lo sguardo e l'occhio tutti sanno che non sono la stessa cosa, eppure... È nell'acqueo, nell'aereo, nel fluido che lo sguardo va in cerca dapprima delle sue ipostasi: solo elementi o essere eminentemente mobili possono rappresentare la sua estrema mobilità. Da qui il bestiario prediletto dai nostri occhialai: animali marini dalle evoluzioni imprevedibili, sirene e ippocampi; farfalle e libellule, che come lo sguardo procedono a scatti; uccelli d'ogni piumaggio, di preferenza dal collo lungo, che battono le ali come si battono le palpebre. "Allo sguardo non conviene", nota Jean Paris, "che la prerogativa dell'uccello: esso si posa, vola, viaggia con pari libertà". Libertà tradotta anche da un movimento centrifugo: gabbiani o ippocampi sono sempre rivolti verso il largo, verso quell'infinito il cui simbolo matematico è esplicitamente tracciato da certi occhiali. Altri, non meno ingegnosi, hanno una configurazione più feroce: non è più l'agilità dello sguardo che esprimono, ma la sua potenza micidiale. Perché un colpo d'occhio può essere antropofago: "v'erano un tempo in Italia", secondo Collin de Plancy, "degli stregoni che con un solo sguardo mangiavano il cuore degli uomini e l'interno dei cetrioli". Stregoneria a parte, Maupassant è altrettanto avido dinnanzi a uno spettacolo campestre: "ho tutto il bosco negli occhi, mi penetra, mi invade, cola nel mio sangue; e mi pare persino di mangiarlo... di divenire bosco io stesso". Per l'esperienza comune come per la fantasticheria poetica non c'è sguardo che non sia potenzialmente divorante. Dare a un paio d'occhiali la forma di due bocche, dalle labbra rosse e carnose rimboccate su due file di incisivi, non significa dunque, o non significa soltanto, mettere un gadget sul mercato; significa, mediante un'operazione del resto assai regressiva, restituire un oggetto banale al mondo dell'immaginario. Senza dubbio, a chi li usa come strumenti ottici, bastano un paio o due di occhiali; ma chi li utilizza come operatori di senso è costretto a costituirne una collezione; così procede esemplarmente il cantante Elton John. Dai travestimenti di quest'ultimo si concluderà d'altronde, e soprattutto, che nei nostri moderni occhiali si esprime, discreta ma commovente, una nostalgia delle maschere. Come il trucco femminile o come la bautta veneziana, essi offrono solo una visione degradata della maschera, sminuita sotto ogni aspetto. Ma più del trucco e della bautta, essi provocano l'inquietudine e il turbamento; senza operare pienamente la metamorfosi di colui che li mette, suscitano sulla sua identità un interrogativo leggermente angosciante. Perché essi sanno ancora coniugare il trasferimento alla mimetizzazione, e alla mimetizzazione l'intimidazione. Intimidazione, travestimento e mimetizzazione sono peraltro cumulabili; coprirsi gli occhi col cartello Stop, con una perversità che non esclude lo humor, significa contemporaneamente travestirsi da codice della strada, proteggersi dagli sguardi indiscreti e aggredire il proprio prossimo. Ricchi emblemi e povere maschere, lo statuto di questi occhiali è decisamente ambiguo. Provochino essi un sorriso irritato o una reale apprensione, bisogna comunque ammetterlo: figli di un'industria del gadget non sono perciò meno eredi di una tradizione sotterranea. In questi oggetti di plastica sopravvive qualcosa dei malefici della Gorgone, dei poteri della Medusa. Sirene d'AmericaLa cultura americana fra gli Anni Trenta e Cinquanta si rivela almeno con altrettanta chiarezza nel juke-box e nel grattacielo, nella scatola per impilare i dischi e nell'edificio per inscatolare gli esseri umani; fra questi due oggetti il più enigmatico non è necessariamente il più grosso. La macchina musicale è infatti circondata di mistero: il suo stesso nome attende di essere decifrato, in quanto nessuno è riuscito ancora a cogliere l'etimologia di quel "juke"; e si tratta di un congegno astuto che, dietro alla semplicità del suo funzionamento - una moneta, la pressione di un dito - dissimula la complessità delle sue funzioni. Tutti sanno che questo apparecchio conviviale ha svolto un ruolo sociale particolare, attestato dal prodigioso successo che ha ottenuto presso parecchie generazioni di giovani e di meno giovani; tutti sanno anche che questo medium-macchina, che questa macchina medianica assolve nel campo dei divertimenti e dell'entertainment una funzione ben specifica, rendendo presente l'assenza, trasformando il denaro in sogno, mettendo in comunicazione l'occhio con l'orecchio. C'è di che suscitare curiosità. Eppure il juke-box, per la maggior parte di noi, resta un oggetto al tempo stesso familiare e sconosciuto, anche dopo che la nostalgia e la moda retro gli hanno conferito una certa qual aura, anche dopo che i collezionisti hanno preso a farne incetta con avidità. In Europa, salvo rare eccezioni, il juke-box viene guardato senza essere visto. Nel suo paese natale, gli Stati Uniti, la sua storia viene ancora scritta timidamente, ricordando il ruolo che ha svolto nella diffusione del jazz e della musica popolare. In questa prospettiva è chiaro che il juke-box è strettamente legato alla Grande Depressione e alla guerra; la sua età dell'oro, fra il 1933 e il 1948, dalla fine del Proibizionismo al diffondersi dei giradischi individuali, dalle prime gorgeous machines marca Wurlitzer all'ultimo apparecchio disegnato da Paul Fuller, coincide con un periodo di crisi economica e di conflitti planetari. In un'epoca angosciosa, il juke-box irradia la festa, ne esibisce elettromeccanicamente i segni: luce, spreco e rumore; in un'epoca di relativa penuria, in cui la radio non è ancora penetrata in ogni casa e in cui un teenager ha difficoltà ad acquistare dischi, il juke-box consente un ascolto collettivo in cui ciascuno approfitta delle scelte musicali del vicino o le subisce. Non solo, anche quando la radio diventa per ogni Americano un accessorio indispensabile e una compagnia permanente, il juke-box offre ciò che la radio non può ancora proporre: un minimo di libertà apparente e di scelta. L'illusione di poter padroneggiare un universo acustico invadente, la possibilità - limitata - di affermare un gusto individuale e di trasformare la ricezione passiva in espressione di sé è, in questo senso, una sorta di equivalente sonoro della moda per quanto riguarda l'abbigliamento. Programmando il suo miniconcerto, combinando il disco B2, il disco F7, il disco C4, l'operatore, consciamente o no, sfoggia la propria identità culturale e, per macchina interposta, si esibisce di fronte a un pubblico di sconosciuti o di amici. È possibile qui intravedere il rituale e la magia del juke-box, che non si riduce alla funzione che gli è ufficialmente attribuita; è altro da ciò cui serve. Non è assolutamente sufficiente definirlo, come fanno i dizionari, un "apparecchio sonoro pubblico che suona automaticamente il disco richiesto"; e non basta neppure, per quanto fondate siano queste osservazioni, ricordare come, favorendo certi generi musicali, creando loro un pubblico immenso, questo apparato di relais e di valvole abbia modellato il gusto di tutta un'epoca, ridato fiato all'industria del fonografo e del disco, introdotto il divismo fra i cantanti e le orchestre. Questi effetti, certo non trascurabili, non sono tuttavia gli unici, né probabilmente i principali, prodotti dal juke-box. Rintanato nell'ombra dei bar, dei saloon, delle hall degli alberghi, il juke-box ha per molto tempo eluso lo sguardo critico; è da poco che lo si sospetta di non essere né uno strumento semplice né un semplice strumento, ma di appartenere contemporaneamente alla sfera degli oggetti d'uso, alla sfera delle opere d'arte, alla sfera delle istituzioni e dei riti. È ormai arrivato il momento di annoverarlo fra le macchine che, trasformando quantitativamente e qualitativamente l'azione dell'uomo sul suo ambiente, hanno profondamente modificato la sua sensibilità; fra le tecniche di riproduzione che non solo sconvolgono e rivoluzionano la percezione delle opere che riproducono, ma si impongono esse stesse come forme d'arte originali; e fra i meccanismi sociali che, come la moda, integrano e discriminano gli individui e i gruppi. In altri termini, è veramente giunto il momento, per coloro che pretendono di coltivare le scienze sociali, di lasciare per un attimo la loro serietà in guardaroba, di introdurre una moneta nella fessura del juke-box e di ascoltare quanto ha loro da dire. È prima di tutto lo storico delle tecniche che dovrebbe aguzzare l'orecchio: il juke-box infatti gli offre una sintesi superba di fonografo, di automa musicale e di macchina mangiasoldi. Più sistema meccanico che macchina, questo ibrido meccanizza contemporaneamente il suono, lo spettacolo e il gioco; è un apparecchio audio-ludico-visivo per guadagnare denaro, che si situa al punto di confluenza di almeno tre correnti. In quanto fonografo rientra con tutta evidenza nel solco dell'immensa tradizione delle tecniche, immaginarie o reali, di registrazione del suono. Il suo pedigree annovera suonatori come Rabelais e le sue parole gelate, padre Kircher e le sue teste parlanti, Didier de Couchy e la sua musica in bottiglia; inventori come il geniale Edison e il poeta Charles Cros. Più precisamente: il juke-box reintroduce una dimensione onirica nella macchina degli ingegneri, restituisce una valenza spettacolare all'apparecchio, dopo tutto abbastanza spento, del grande Americano; mantiene, dopo un secolo, la promessa iniziale del fonografo, così come era stata espressa da Nadar: "Far vedere il rumore". Tanto più che, parallelamente, riprende la tradizione degli strumenti musicali meccanici, la cui voga straordinaria è durata dal XVIII secolo almeno fino al 1925: orologi melodici, quadri animati, cordofoni mossi da nastri perforati, pianole e organetti meccanici. Il fonografo è concepito per immagazzinare e riprodurre la voce umana, ma non blandisce affatto l'occhio. Lo strumento meccanico offre uno spettacolo totale, che unisce l'uditivo al visivo, ma non può riprodurre la voce; il juke-box spesso perviene con successo alla sintesi. Se i modelli odierni hanno perduto ogni fascino (o piuttosto ne esercitano un altro, glaciale, sforzandosi di assomigliare a terminali di elaboratori elettronici), i Wurlitzer dell'età dell'oro propongono in compenso una vera e propria fantasmagoria pirotecnica: lampeggiamento multicolore, luminosità e splendore delle cromature e del vetro, tutto un gioco di luci che sottolinea la caduta del disco sul piatto o il movimento del pick-up e del meccanismo automatico. Pagando, naturalmente: e infatti il juke-box è anche l'erede dei coin-slot phonograph e delle macchinette mangiasoldi che l'accorto Edison collocava nelle esposizioni e nelle fiere per rendere redditizie e sfruttare alcune sue invenzioni: sotto questo aspetto la fantasmagoria elettromeccanica del juke-box è la trasfigurazione di una moneta o, come ebbe a dire Walter Benjamin, la trasfigurazione della merce attraverso il divertimento. È ora il turno dello studioso di estetica, dello storico dell'arte, del sociologo di aprire occhi e orecchie. Ai primi due il juke-box, quando si degneranno di osservarlo, apparirà senza dubbio come uno dei più bei mostri che l'epoca moderna abbia prodotto; come la realizzazione della tendenza, caratteristica della prima età industriale, di nobilitare la tecnica con una finalità artistica, di dare dignità estetica al funzionale con una ornamentazione talvolta delirante. Come il Modern Style, anche lo stile juke-box moltiplica per esempio i fiori, gli uccelli e le curve femminili, per compensare e addolcire una tecnologia vagamente inquietante; nell'inorganico reintroduce l'organico, vestendo la macchina da vegetale, da animale o da essere umano. Per far dimenticare la brutalità della puntina sul disco, il juke-box esibisce come simulacri suonatori di flauto o di tromba, e dissimula dietro immagini da commedia dell'arte la totale incapacità di improvvisazione di un apparecchio cui l'aspetto laccato, polito e scintillante tenta di dare un anima, come per cancellare le stimmate della produzione industriale. Da un certo punto di vista si tratta di un oggetto decisamente composito: intermediario tra il vivo e il morto, l'animato e l'inerte, come pure fra l'arcaico e il futurista (certi modelli evocano contemporaneamente antichi totem e cabine di pilotaggio: così come l'ultima opera di Paul Fuller imita sia una scultura primitiva sia il muso di un bombardiere). Insomma questo essere ibrido, che una piccola offerta basta ad appagare, assomiglia a una sirena dei tempi moderni. Malgrado o a causa della sua anonima e ludica apparenza, è un grande seduttore: se tanti adolescenti cedono al suo fascino è forse perché propone loro un uso magico del funzionale, prolungando nel mondo degli adulti e delle macchine l'universo dei bambini, dei giocattoli. Macchine mangiasoldiNei primi tempi di Babilonia, stando alla finzione borgesiana, "i barbieri spacciavano, in cambio di qualche moneta di rame, rettangoli d'osso o di pergamena ornati di simboli. In pubblico si effettuava un sorteggio e i favoriti ricevevano, senz'altro intervento del caso, monete coniate in argento. Il procedimento, come si vede, era elementare". Come rendere più palpitante questa sommaria lotteria? È nota l'inquietante risposta di Borges: è necessario aumentare a dismisura la posta. Far dipendere la propria vita, i propri amori, il proprio destino da un'estrazione a sorte gratuita, obbligatoria e infinita, il cui funzionamento paradossale susciti le più vertiginose congetture. È esattamente all'inverso che procede, nelle nostre moderne Babilonie, la slot-machine: ripugnandole ogni metafisica, essa non conta che sulla tecnicità per allettare l'avventore. Modesta e persino misera nelle sue poste come nelle sue puntate, non esce mai dall'ordine del pecuniario; e lungi dal tributare un culto alla Fortuna, la utilizza a fini rigorosamente lucrativi. Del resto il caso non presiede sempre alla distribuzione dei suoi premi, e poco manca che le macchine a gettoni siano tutte aleatorie. E quindi non sono altro che dei giochi, mentre la lotteria babilonese va ben oltre il ludico. Da ciò deriva senza dubbio il fatto che esse incappano tanto spesso nella repressione e nel disprezzo: malgrado il profitto che ne traggono, i pubblici poteri provano nei loro confronti solo diffidenza, quando non le sventrano a colpi di mazza, come ai tempi del Proibizionismo; i benpensanti dimostrano verso di esse una severità inconsunta; e gli intelettuali, anche i più attenti al funzionamento della società, le reputano generalmente indegne di un momento di attenzione. Huizinga a esempio, che nel suo "Homo Ludens" studia magistralmente il ruolo del gioco in tutte le culture, esclude dalla sua ricerca lotterie, scommesse e giochi d'azzardo; neanche una parola, nella sua opera, a proposito di queste macchine, la cui importanza, peraltro, andava crescendo sotto i suoi occhi. E Roger Caillois, che tra i primi le descrive da sociologo, subito le condanna da moralista: "giochi vuoti, giochi nulli", pseudo-giochi che servono solo a "sostituire la noia con una routine travestita da divertimento", le macchinette mangiasoldi vengono da lui accomunate ai flipper in un unico anatema. Resta il fatto, tuttavia, che esse hanno conquistato mezzo pianeta e che le loro seduzioni ingenue e sofisticate catturano da quasi un secolo orde di giocatori affascinati ora dall'imprevedibile traiettoria di una biglia sfavillante, ora dall'eventuale metamorfosi di una monetina in pioggia d'oro. Alcuni stati d'America hanno loro offerto una terra d'elezione: in quei casinò, alberghi e luoghi di piacere dove sono autorizzate, le "macchine rapinatrici" depredano indistintamente ricchi e poveri, tra cui una maggioranza di donne convinte di non spendere in questo gioco più degli spiccioli del bilancio familiare. In Giappone, lunghe file di giovani e vecchi, di studenti e funzionari, provano un bruciante e misterioso piacere nell'alimentare le voraci fauci dei pachinko. In Europa, il fenomeno non ha forse la stessa ampiezza: l'Italia, benché abbia inventato la lotteria, la Francia, benché abbia dato vita alle prime macchine a gettoni, ne hanno rigorosamente circoscritto e regolamentato l'uso. Anche i sudditi di Sua Maestà britannica, che già verso il 1930 infornavano annualmente due milioni di pennies nelle slots, sono rimasti fedeli a un'abitudine meno gratificante per i giocatori che remunerativa per i gestori, i fabbricanti e lo stato. Così la passione ludica e l'attrattiva del lucro concorrono da un lato alla sbalorditiva di questi bizzarri aggeggi, mentre essi incorrono, d'altro canto, in una riprovazione raramente dissimulata. Più appare considerevole la loro importanza economica, più appare vicina allo zero la loro importanza culturale. Dobbiamo quindi respingerle nella loro insignificanza? Il collezionista Jean Claude Baudot fornisce un'eccellente occasione per spiazzare il dibattito: strappando al loro contesto vecchie slot-machine per esibirle in un museo, egli proietta su di esse una luce nuova, e invita a considerarle con occhio diverso. Passando dalle finzioni metafisiche al mondo industriale e reale di queste macchine da gioco, l'osservatore si trova di colpo afferrato dalla loro prodigiosa varietà. Ci sono le gigantesse e le nane; le magroline e le panciute, le polimorfe e le cubiche; in legno, in ghisa policroma, in acciaio cromato; alcune grossolane e sciocche, altre ornate da disegni naif o da figure geometriche. Le più chic si ammantano di scenari Art Nouveau, le più ingannevoli di cornucopie. Stessa differenza nel funzionamento: se per definizione tutte coniugano il venale col ludico, la combinazione da esse operata tra questi due elementi conosce una moltitudine di gradazioni. Eccone altre che, pure macchine, e macchine per vendere, più che macchine per giocare, distribuiscono senza sorprese sigarette, cioccolato e cartoline postali; a manipolarle non si prova più il torbido e leggero piacere di acquistare qualcosa senza l'intermediazione d'un essere umano, ricevendo dal posteriore di una falsa gallina un confetto ovoidale, o dalla proboscide di un elefante una tavoletta di gomma da masticare. La venalità è qui massimale, la lucidità minimale. Ma la maggior parte sono più sottili: non vendono che il diritto di giocare e l'eventualità di una ricompensa (subito reinvestita). Introdurre una moneta nella loro fessura significa allora introdurre nella propria vita una certa dose di incertezza - riuscirò a far entrare la biglia nel buco, sarò gratificato di un buon oroscopo, avrò la fortuna di allineare due ciliegie e un limone per far saltare il banco? Per quanto derisorio possa sembrare il maneggio di queste macchine, sarebbe un rompicapo (un gioco, forse) elaborarne una tassonomia: vanno classificate secondo la parte che riservano al caso e alla destrezza, sollecitando qui le facoltà del giocatore e là sospendendole, ora esigendo da lui un'estrema attenzione, ora lasciandolo inebetito davanti alla rotazione di un disco multicolore? Bisogna distinguerle in funzione dell'energia che richiedono: meccanica, elettrica o elettromeccanica, rimanendo inteso che è sempre l'operatore a fornire lo sforzo principale? Oppure le classificheremo in base al loro pervertimento di giochi preesistenti, il poker e i dadi, il puzzle e il bigliardo, o all'invenzione di giochi nuovi e inediti? Sarebbe abbastanza pertinente gerarchizzarle secondo il loro rendimento, dalla Twenty-One Bell che preleva solo una decima del cinque e mezzo per cento, fino alle ingorde che conservano la totalità degli spiccioli loro affidati. O secondo il rapporto che esse stabiliscono tra la posta e la puntata: fino al 1930, con un dollaro non si poteva guadagnarne più di trenta; ma in virtù del "jackpot" - geniale invenzione certamente - che permette a ogni utente di bramare il denaro dei suoi predecessori, alcune macchine, per tre dollari, possono fruttarne trecentomila. E bisogna ancora ricordare, per finirla con l'aritmetica, che con venti simboli su ciascuno dei loro tre dischi, le macchine non offrono meno di ottomila combinazioni - di cui soltanto dodici vincenti. Ma la macchina a gettoni non è soltanto, con le sue innumerevoli varianti e sottovarianti, il più polimorfo di tutti gli oggetti tecnologici che il XIX secolo ha lasciato in eredità al mondo occidentale; è anche il più ambiguo. Il suo statuto è indeciso, e il nome stesso sembra usurpato; infatti, si può dire veramente che sia una macchina questo impostore? Si, certamente, perché trasmette un movimento. No, certamente, perché da questa trasmissione non risulta nulla di utile. Da un lato, col suo insieme di leve, pulegge, ingranaggi, assi scorrevoli e alberi a camme, afferma una potenza meccanica; quando una molla scatta e spinge una biglia su un piano inclinato, quando una ruota riceve l'impulso di una leva e lo demoltiplica, quando una monetina cade e fa ruotare con la propria caduta un disco, la slot-machine, come ogni macchina, mette in opera forze naturali, che canalizza imponendo loro un ordine e una legge; in maniera spesso complessa, e talvolta spesso ingegnosa, combina insomma alcune delle semplici macchine che descriveva venti secoli or sono Erone d'Alessandria. Ma questa macchina composta scompone la meccanica e la sovverte radicalmente: le forze fisiche che essa utilizza non effettuano alcun lavoro; se essa fa girare una ruota, è la ruota della Fortuna, e la caduta dei gravi non è per essa che il casus della Sorte. Circolare o verticale, il movimento che essa trasmette o trasforma si risolve sempre in immobilità improduttiva: in qualche minuto, o in qualche secondo, ecco che la biglia torna al punto di partenza, che il disco si arresta, che la moneta si allinea in un casellario, e questa è in tutti i sensi la fine della partita. Dal punto di vista della meccanica, la slot-machine appare anche come un antimotore. Dal punto di vista dell'economia, come un antiproduttore: come annulla l'impulso iniziale che il giocatore le comunica, così dilapida i valori che in essa vengono investiti. Datele qualcosa e lo ridurrà a niente, mobilitando a questo scopo le risorse della tecnica. Certo, tutti i giochi votano al puro dispendio il tempo, l'abilità o il denaro che a essi vengono dedicati. Tutti sono rigorosamente improduttivi e non possono far guadagnare al vincitore più di quanto perde il perdente; tutti, insomma, si fondano sulla negazione del lavoro. Ma la slot-machine schernisce quest'ultimo con particolare ironia, utilizzando per violarlo il prototipo stesso della produttività, lo strumento prediletto del capitalismo, il simbolo della civiltà industriale: la macchina - che essa strappa al suo ruolo sociale abituale per rovesciarne il funzionamento e farle consumare del denaro invece di fabbricarne. È chiaro che questo oggetto paradossale non poteva apparire che in un mondo già ampiamente meccanizzato, come un sottoprodotto e nel contempo come un controprodotto del macchinismo, come un'applicazione particolare della tecnica trionfante e come una reazione ai suoi temuti eccessi: poiché le macchine respingevano lo spirito ludico, lo spirito ludico si è impadronito delle macchine. Non più soltanto per abbellirle con una piacevole fantasia, come ai tempi degli automi, ma per pervertirle radicalmente: se il XVIII secolo era ancora il tempo delle macchine giocose, il XIX ci ha fatto entrare nell'era del gioco meccanizzato. Si sa che alla fine del secolo scorso, e, agli inizi del nostro, un gran numero di scrittori e di artisti ha rappresentato la dinamica della storia, il funzionamento delle relazioni sociali o la logica dei rapporti sessuali in termini di meccanica, ha registrato la promozione della macchina al rango del principio regolatore di tutta una società. Il loro atteggiamento è stato studiato soprattutto da Michel Carrouges, nel suo saggio "Les machines celibataires".Diversi studiosi hanno registrato la tendenza moderna ad affermare la parentela dell'uomo non più con l'animale o il vegetale, ma con uno strumento meccanico. Senza dubbio la modesta macchina a gettoni non è affatto, nel senso stretto in cui l'intende Carrouges, una macchina celibe; ma come questa unisce in un tutto eteroclito, accoppiandosi al giocatore, il vivente e l'inerte; inserisce l'inerte umano nel circuito di una macchina; e come la macchina celibe la slot-machine si potrebbe descrivere, esagerando appena, come un luogo di interferenze e di scambi tra il meccanico, l'erotico e il religioso. Della "religiosità" delle slot-machine testimoniano debolmente ma sicuramente, su alcuni modelli, diversi simboli cruciformi, per non parlare della mistica dei numeri. Del loro carattere un tantino erotico tutti oggi sono convinti e coscienti, nel senso che assumono le fessure in cui si inseriscono le monete; quanto agli psicanalisti, non c'è dubbio che essi evocherebbero in proposito la fase anale, come evocano la fase fallica a proposito dei flipper. Si vede allora, forse con interesse ma non senza inquietudine, che la slot-machine non è un semplice aggeggio per far girare dei dischi o far rotolare delle biglie: il movimento che in realtà essa opera tende a spingere la macchina nella sfera dell'umano, e l'uomo nella sfera del meccanico. Peraltro non lo nasconde affatto: lungi dal dissimulare che si umanizza, essa adotta volentieri forme antropomorfe; alcuni modelli sottolineano la bocca vorace, la pancia grassoccia, o anche lo sfintere da cui scaturirà forse una diarrea di denaro. Inversamente, come esige la ferrea legge dei giochi, ciò che la macchina acquista umanizzandosi lo perde il giocatore meccanizzandosi: i gesti degli adepti delle slots americane o del pachinko giapponese somigliano perfettamente a quelli del lavoro a catena. Con monotona ostinazione, le più perverse macchinette tendono solo a distruggere quanto un gesto umano può aver misurato, di ponderato, di volontario; allora, come dice Caillois, "l'atto è spossessato della sua intelligenza dall'assurdità delle cose, non ha più un fine ma un risultato". "Mekhane'" in Greco significa astuzia: le slot-machine sono decisamente più astute di quanto si pensi. A colui che ne è un po' spaventato non rimane che una soluzione: invece di considerarle giochi, egli le tratterà da giocattoli. Gnoli
... Oggi mi interessano l'oggetto, la Domenico Gnoli Domenico Gnoli, in piena coscienza e con allusione diretta, evocava i grandi classici del Quattrocento attraverso la scelta di un tema quotidiano e vile. Coperte trapuntate o fiorite di pizzi, fantasie vegetali stampate a macchina, materassi di gommapiuma, fitti reticoli su stoffe di lino: accessori di arredi borghesi, cittadini e industriali, non certo l'arredo di ambienti con pretese o densi di memorie storiche. E d'altra parte il catafalco su cui giace il Cristo di Mantegna non è certo un'ara preziosa o insolita: è una struttura semplice, d'uso quotidiano. Come "i letti" di Gnoli sale verso l'alto restringendosi, definendo una figura di trapezio tipica delle immagini viste dal basso verso l'alto: negli scorci angolari che si determinano vediamo i pavimenti, a conferma di un medesimo impianto compositivo: piastrelle, o parchettature di legno. Domenico Gnoli era nato il 3 maggio del 1933. Suo nonno Domenico, agli inizi del secolo, già maturo, con estro geniale, si trasforma nel giovane poeta ventenne Giulio Rossini e canta un'ode alla nuova musa. Suo padre, Umberto, scrive nel 1923, per le edizioni d'arte di Claudio Argentieri di Spoleto, un libro che è ancora fondamentale ed esemplare: "Pittori e miniatori nell'Umbria", denso di notizie su un momento centrale dell'arte italiana. Tra storici e poeti, il giovane Domenico sceglie di disegnare e, negli anni Cinquanta, vive l'esperienza esaltante di scenografo a fianco di Jean Louis Barrault e di Lawrence Olivier, con risultati di grande fantasia e qualità. Gnoli è ironico e bizzarro, l'illustratore ideale per la calcolata innocenza di un "barone rampante", ma è ancora lontano dall'essenza, qualcosa che sente ma non si ferma nei suoi disegni, ricchi di particolari e di ironia. Improvvisamente scatta il qualcosa che trasforma l'illustratore in un filosofo. Non è più l'aneddoto che Gnoli descrive, ma l'oggetto, e anzi, il particolare ravvicinato dell'oggetto, che non appare mai intero. È una porzione di pantaloni che potrebbero appartenere a un manichino come a un corpo, e che importano per la rigida linea diritta della piega; è un colletto di vestito o una capigliatura le cui geometriche strutture appaiono analoghe. L'essenza delle cose sembra stare nel loro isolamento: un lembo del colletto di una camicia è qualcosa di più che non la camicia stessa; l'ingrandimento sottolinea questa qualità noumenica del particolare, senza ingenerare dubbi o far pensare ad altro. La pop art americana - si pensi a Roy Lichtenstein - sembra giocare con le essenze, che per Gnoli, invece, sono cose serissime e richiedono tutto l'impegno dell'artista. Niente come la visione ravvicinata evidenzia l'alterità che si cela nell'identità: la nostra pelle, vista attraverso una lente, è una carta geografica di asperità imprevedibili, a occhio nudo. Per Gnoli isolare un particolare è individuare l'essenza costitutiva della totalità, senza equivoci. Della pop art americana Gnoli non è un epigono o un raffinato imitatore europeo. Gnoli, Riproducendo gli oggetti, ne sottolinea la consistenza, la continuità nel tempo, la durevolezza. Monumentum aere perennius: il letto come la cravatta e le capigliature, vere architetture che non possono cedere. La sua dignità si dichiara nella dignità delle cose osservate con lo stesso spirito dei classici italiani del Rinascimento. Non la realtà è dunque lo spirito primo per Gnoli, ma la tradizione: Mantegna, Bellini, Francesco del Cossa, i maestri delle tarsie lignee quattrocentesche. E il passato rivive nella forma, che è assoluto concentrato nel particolare. L'allegoria non è nel mito, ma nella sineddoche, e il quotidiano si trasforma in eterno, perché Gnoli lo vede sub specie aeternitatis. D'altra parte che il suo classicismo sia originario lo mostra la descrizione diretta, senza mediazioni, delle immagini antiche: una variante, coeva, della pittura del Quattrocento, non una risposta di immagini già viste. Gnoli, infatti, parla Latino. LettiSotto candide lenzuola, sotto disegni a losanghe o a ramage, i letti nascondono, per noi, una tasca d'ombra. Vi è esibizione di innocenza, e aria di infanzia e di cresima, nella esattezza delle loro piegature e nella loro immacolatezza. Eppure, quante cose terribili avvengono, nella sacca che si apre sotto l'imboccatura di un letto! Là si nasce; là si muore; là si conoscono i sogni e le insonnie, i piaceri apparentemente solitari e quelli apparentemente condivisi, gli incubi e le febbri, i peccati e le agonie. Che cosa dà l'idea di trappola più che un letto irreprensibilmente preparato "a notte"? E chi può avere tanta fede nei suoi astri, da essere sicuro di sortirne vivo? Nelle opere di Gnoli c'è questa pericolosità dei letti, che anche i bambini avvertono, quando lottano contro il sonno e piangendo si rifiutano di indietreggiare dal cerchio degli svegli. Non è poi soltanto una sciocca battuta osservare che nessun supporto o veicolo comporta un tasso di mortalità altrettanto elevato. Quale ordigno, d'altronde è strano e infido come questi cofani che dispongono, intorno a un vuoto e a un ombra nascosti, una morbida, minuziosa, paziente rivestitura tessile? Soltanto una figura donnesca può avere in custodia questi intrighi di fili e di buio, nel cui fondo le sagome umane giacciono come Laocoonti atterrati. Non è forse al versante femminile e al mondo delle Parche che appartengono la tessitura e la notte? Mitiche mani materne curano la manutenzione dei letti. Così l'ordine meridiano dei letti si ricompone eternamente, come l'ordine stesso del creato, indifferente ai nostri crimini, alle nostre delizie, ai nostri deliri. Nulla, nell'universo, v'è di così tempestoso e squassante da poter gualcire l'impassibilità di un letto. Se diverse, aggraziate e vivaci, sono le lane e i ricami che lo rivestono, seguendo i pensieri, le delicatezze, le variate geometrie femminili, una è la specie d'ombra che il cofano destinato al nostro sonno contiene: così, come stazioni del metrò, tutti i letti danno accesso a una circolazione sotterranea, in cui ci muoviamo, in un'ombra iridescente e cinerina; si potrebbe anzi dire che tutti i letti sono un unico letto, nei cui anfratti, come in un parco giochi, gira la ruota delle nascite e delle morti. Talvolta, sul punto di addormentarci, ne sentiamo la superficie, su cui il nostro corpo poggia, scivolare via, e andare alla deriva, fra barlumi che l'ubicazione delle finestre e delle porte non giustificano, verso lontane galassie, e sino ai limiti dell'universo. È questa sensazione di cedevolezza e scioglimento che rende l'idea di letto necessariamente soffice, anche per chi è solito dormire su una dura asse. Per qualsiasi verso la si rigiri, è dunque al centro di innumerevoli misteri e turbamenti che si collocano quei padiglioni tessili, in cui trascorriamo tanta parte della nostra vita. Al pari di altri grandi metafisici, Domenico Gnoli ne ha saputo esprimere l'illimitata piega d'ombra, immergendoli in una luce meridiana, gelandoli in geometrie ineccepibili che niente concedono al vaporoso, al raggrinzito e allo sfatto, e infine inabissando i nostri corpi laggiù, come impronte pompeiane, o pietre sul fondo di uno stagno. Il collezionista Claude Spaak, di fronte a "Letto bianco", dichiara le sue debolezze: "Nella modesta stanza campeggiava su un cavalletto 'Letto bianco': coperta chiara, guanciale immacolato recante peraltro l'impronta di una testa che mi sconvolse. Qualcuno ci aveva dormito senza turbare l'ordine delle lenzuola? Qualcuno aveva lasciato quel giaciglio per non tornarvi mai più? Qualcuno che forse si aggirava non lontano? Si pretendeva che Gnoli fosse il pittore dello sguardo, e io scoprivo il pittore dell'essenza". Ma in che rapporto sono assenza ed essenza? Per Gnoli sembrano coincidere. L'impronta sul cuscino è un vuoto che parla di un pieno, è l'impronta calda di un corpo ed è qualcosa di più del corpo stesso, perché è insieme anche il suo vuoto. Così per Lao Tse ciò che conta di un vaso è quello che non c'è, ciò che consente di contenere, ciò che non è. Quando Gnoli inizia la serie dei "letti", sa che qualunque punto di osservazione è sufficiente a comprendere tutto l'universo, e che il suo guanciale ammaccato non è soltanto un guanciale ammaccato. È forse meno inquietante un "Letto nuovo"? Non ci sono impronte; la totalità del letto è un simbolo di perfezione, di incontaminazione. Ma quel che è puro tende a essere corrotto, e niente è più vicino a deformarsi di ciò che è intatto. Bastano "Due dormienti", senza teste, sagome affiancate e simili a rilievi montuosi in un plastico geografico o a impronte laviche di corpi perduti. Ecco, per Gnoli l'uomo è perduto, non ha volto, ha solo "soma". In una stanza stretta, con pavimenti a piastrelle quadrate, bicolori, dorme sul fianco una donna dai capelli scuri. Il suo sonno è un atto primario, è un abbandono dell'intelligenza. Il corpo vince e pesa. Non c'è che solitudine nel sonno: si può mangiare assieme, parlare, stringersi, ma dormire non è comunicabile. A ognuno di noi corrisponde una porzione di materasso, una rete e magari un scendiletto. Per questo il letto ha una sua autonomia e Gnoli lo rappresenta frequentemente senza presenze umane, incombente, massiccio, rigido come "Il grande letto azzurro" del '65, o morbido e comodo come il "White Bed" del '68. Talvolta ne mostra l'anima, il puro materasso, trapuntato, con stoffa a fiori e poggiante sopra un telaio coperto di stoffa rigata ("Le matelas", 1965). E non può mancare, a fianco del letto appena lasciato con l'impronta del corpo, il letto pronto, già preparato all'uso, con il lenzuolo ripiegato ("Letto verde", 1964). Niente è più lontano dall'immaginazione di Gnoli del letto come luogo di piacere, come campo di battaglie erotiche e neppure come luogo di sogni. Il letto è un mobile, come un tavolo o un armadio, ma ciò che affascina probabilmente Gnoli è che mentre l'armadio si riempie di abiti e il tavolo di carte o di cibi, cioè di oggetti inanimati, i letti si riempiono di corpi, assumono cioè significato al contatto con presenze vive, sia pure nel momento della pausa, che tanto assomiglia alla morte. Il letto, insomma, è il luogo negativo della vita, intesa come azione - sia intellettuale che fisica. Contrariamente a una sedia o una poltrona, luoghi transitori o funzionali ad altre azioni, come scrivere o mangiare, il letto deve essere abitato, è una architettura ridotta al minimo, un vero e proprio ambiente per il corpo al termine delle sue funzioni diurne, o comunque attive. I letti di Gnoli sono piazze, le dimensioni sono relative agli oggetti circostanti che Gnoli esclude quasi totalmente dal suo sguardo. Un uomo e una donna si stringono sotto lenzuola e coperte che li coprono fino alla faccia, lasciandone vedere soltanto i capelli e qualche dito. Intuiamo dalle sagome che si intravedono in superficie che stanno amandosi, lentamente, senza affanno. L'invenzione non desta sensazione di piacere o di desiderio, e non richiama neppure la fervida eccitazione che accompagna gli abbracci amorosi, e che è pienamente avvertibile nello straordinario prototipo che certamente Gnoli aveva in mente: "Gli amori di Marte e Venere". In questo celebre affresco le forme dei corpi entrano in conflitto con le pieghe spigolose del lenzuolo, rendendo quasi elettrica di brividi l'atmosfera che nella "Couple au lit" di Gnoli è ferma e stagnante. Eppure l'essenza metafisica di Ercole dei Roberti, sottolineata dalle armi di Marte e dall'abito di Venere che giacciono inanimati al piede del letto, è sicuramente un punto di riferimento per la fantasia di Gnoli, che dialoga più volentieri con Piero della Francesca, Mantegna e i grandi Ferraresi del Quattrocento che con i suoi colleghi contemporanei. C'è ironia in Gnoli? Il richiamo al passato spingerebbe a pensare all'esigenza di una mediazione, la scelta dei soggetti alla volontà di abbassare il tema aulico. Ma l'insieme di questi due elementi non determina l'ironia, perché il letto banale e quotidiano di Gnoli ha la stessa dignità di un'ara o di un monumento, di un trono o di una lapide. Ciò che per i maestri antichi si esprimeva nel tema mitologico, storico o religioso, in Gnoli si esprime in un oggetto d'uso, che non è simbolo, ma ha mistero. Gnoli non gioca, non si diverte, cerca un essenza imprevista. E certamente la trova, se i suoi letti sono immagini mai prima viste. probabilmente il maestro moderno cui più si lega è Balthus: in entrambi, l'imitazione dell'antico, o dello spirito dell'antico, determina immagini nuove, non ripetizioni. Ciò che si tramanda non è il fenomeno, ma il principio formale che appartiene alla mente e all'ordine della ragione. Gnoli è contro ogni forma di razionalismo, di istinto incontrollato, liberato sulla tela a modo degli espressionisti astratti o degli informali. Per lui la pittura è ordine e misura, "divina proporzione". GuancialiChi sostiene che il guanciale è bianco in quanto appartiene al paesaggio notturno, né più né meno che la luna, non tiene conto di quanto allegra possa esserne la vista alla piena luce del giorno, appena lo si scopra, scostando il copriletto. Fresco, candido e paffuto, s'affaccia al capezzale, come per dire che durante il giorno il re del letto è lui, lui il padrone di quella distesa liscia e soffice. A differenza della luna, che ha bisogno del buio per brillare, il guanciale porta in sé la promessa della notte - intesa come sollievo, morbidezza, crogiolamento, intimità - e insieme la luce che la rischiara. Chi tenta di dare al guanciale una descrizione oggettiva inevitabilmente fallisce. Si può provare a dire che è la sola forma al mondo che unisca la stabilità di un cubo alla pienezza di una sfera, la saldezza di un'isola alla duttilità di una nuvola. Ma qualsiasi discorso su di lui finisce per assumere dei toni affettivi; del guanciale o si fa l'elogio o si tace. Ciò che il guanciale può accogliere - sonno, sogni, insonnia, amori, malori, morti, nascite - non si legge sulla sua superficie, che esprime solo una tersa serenità priva di rughe. Qualsiasi fossa o grinza che il guanciale si ritrovi al mattino, facilmente gli verrà scrollata di dosso: la sua vera fisionomia è l'assenza di lineamenti. Del volto umano una sola cosa ricorda e ama: la guancia. Essere una guancia, trovare in una guancia il proprio guanciale, è il suo tranquillo desiderio. Ed è grato alla guancia che gli è grata. BottoniIl bottone, al tramonto, raccoglie anche le ultime luci sulla sua superficie liscia, ma non può trattenerle dallo scorrere giù per la lieve convessità, verso il bordo rilevato dove un'ala d'ombra sta in attesa, pronta a inghiottirle. I riflessi luccicanti che nelle ore del giorno hanno cullato il bottone nell'illusione di essere specchio e di poter raccogliere nella sua imperturbabile circonferenza l'immagine tumultuosa del mondo, alla sera si smorzano e restituiscono il disco alla sua solidità opaca. È l'ora in cui una ritrovata certezza potrebbe ripagare il bottone della perdita di splendori fluttuanti e ingannevoli: se non potrà essere mondo, sarà bottone, come è sempre stato ed è, modellato in un eterno presente. Ma già un'altra ambizione lo prende: quella di sfoggiare le striature della sostanza corneale, la traccia impercettibile lasciata dal ruotare del tornio: le prove, insomma, della nobiltà di chi ha avuto per madre la natura vivente e non ha lo stampo della plastica sorda e inanimata. Per scorgere questi dettagli, c'è un momento in cui la luce non si riflette più sul disco, ma è diffusa ancora nell'aria del crepuscolo. Ecco, forse adesso. No: troppo tardi! Cala il buio. I pertugi della natura - caverne nella roccia, crateri di vulcani, orifizi del corpo umano - conservano il mistero di vie che s'aprono sulle forze oscure dell'essere. Non così i fori del bottone: netti, regolari, simmetrici, centrali, essi rappresentano la ragione - nelle sue accezioni più usuali: ragione pratica, ragione sufficiente - e fanno del bottone un bottone, ne condizionano funzione ed essenza. Il filo che in essi scorre dovrebbe partecipare della stessa univocità e assolutezza; invece il contrasto tra il suo modo d'essere e quello del bottone è riducibile. In mezzo alla distesa levigata, priva della minima increspatura, si leva un doppio ponte di fibre, che a uno sguardo ravvicinato si rivelano filamentose e boccolute: lacci che si stringono alle pareti esatte dei fori con l'accanimento malleabile delle liane della giungla e delle spire dei serpenti. Nel cuore del bottone impassibile s'annida un'anima flessuosa e intrigante, capace di disporsi in due parentesi simmetriche e uniformi nel tratto del suo percorso allo scoperto, ma anche di nascondere nell'interstizio tra bottone e stoffa un groviglio attorcigliato e bitorzoluto. Ed è su questo tronco-viluppo, ritorto e convulso, che il bottone regge la sua imperterrita serenità. Tra le cose del mondo i legami più saldi si fondano sull'eterogeneità, purché essa garantisca l'elasticità necessaria a una connessione mobile e articolata: così la gomena tra la nave e il molo, così il filo tra il bottone e la stoffa. Se il centro del bottone custodisce gli organi più essenziali alla funzione dell'allaccio, insieme esatti come ingranaggi e reattivi come visceri, la circonferenza può permettersi un segno di lusso ornamentale, sia pure austero quale il bordo rilevato. Questa rifinitura non è priva di significato: giustamente sottolinea una proprietà decisiva dell'oggetto: la misura dei suoi confini. Infatti, un bottone d'estensione illimitata non servirebbe ad abbottonare, perché non entrerebbe in alcun occhiello, così come un bottone di superficie minima non potrebbe esercitare alcuna presa; dunque esiste una norma aurea: il giusto calibro che il rilievo del bordo incorona, a ricordare che il mondo è una rete di corrispondenze, dove non c'è cosa fine a se stessa, dove ogni bottone presuppone un occhiello, e viceversa. Valicati i bordi, si ritorna verso il centro, percorrendo la faccia inferiore del bottone, che è svasata, come d'un piatto o scodella. Per studiarne le proprietà, si consiglia d'attendere il sorgere della luna: bottone e satellite brilleranno entrambi di luce riflessa sulle facce che reciprocamente si fronteggiano, mentre le facce nascoste resteranno fasciate d'ombra, ma con questa differenza: mentre il rovescio della luna s'affaccia su vuoti abissi di lontananza, il rovescio del bottone schiaccia la propria ombra sui campi di stoffa, da cui lo separa solo un peduncolo di filo più corto d'un gambo di fungo, o addirittura aderisce alle labbra dell'occhiello nel lungo bacio dell'abbottonamento, e accetta la carezza vellicante del tessuto. I rapporti tra il bottone e la morbida distesa di stoffa, in cui affonda le sue radici filiformi - prato erboso o fitta stuoia di fibra sintetica - non sono definibili con certezza, come spesso accade tra entità inconciliabili. Insensibile al caldo, al freddo, al secco, all'umido, il bottone può ben farsi forte del suo temperamento stabile, ma non di rado la ricchezza di reazioni della stoffa, il suo fiorire e il suo patire, la sua partecipazione ai climi e alle intemperie, gli paiono aspetti degni d'invidia, o gli suscitano uno struggente desiderio. Insofferenza reciproca e complementarietà amorosa s'alternano e si mescolano, come in tutte le lunghe convivenze. Riferimenti bibliografici
© 1986 Giovanni Caminiti e Michele C. Battilana |
|||
|
|||